lunedì 30 settembre 2013

Ricordi #2 / Don Franco

Ricordo vagamente quel giorno.
Avrò avuto nove anni, e a Messa m'annoiavo. O almeno, così era quando abitavamo nella vecchia casa.
Quel giorno io, il mio fratellino e Papà andammo a vedere la nuova chiesa. Vidi subito quell'uomo dall'aspetto dolce e bonario venirci incontro, stringere la mano a Papà, salutare noi bimbi. Ci chiese: "Volete fare i chierichetti?" Già questa era una rivoluzione, solitamente le parrocchie li 'istituzionalizzano'. Simo non volle, io accettai.
E mi divertii un sacco. Sebbene non potessi prendere la particola, perché troppo piccola, indossai la candida tunichetta bordata d'oro, lessi le preghiere nel librone sollevato sul tavolone imbandito, alzai la coppa del vino al cielo durante la benedizione e m'inchinai assieme agli altri bambini di fronte all'altare. Poi corsi in sacrestia per togliere la veste... E rubare le particole. Non santificate, ovviamente!

Due anni dopo Don Franco presenziò la cerimonia della mia prima comunione. Ricordo la battuta di un mio compagno al sapore della particola: "Sa di patatina senza sale!" Ancora ora mi viene da ridere. Tanto per cambiare, rendendo onore alla mia nota goffaggine, inciampai sulla sua tunica e mi salvò prima di fare una figura peggiore di quella che - comunque - feci.

Passarono ancora gli anni. Simo mi raggiunse sull'altare - io la coscienziosa, lui il disturbatore. Don Franco mi diceva: "Tieni a bada i più piccoli, tu che sei grande!", ma puntualmente era il primo che non riusciva a sgridarli. Tutti stretti stretti, spintonando per leggere la preghiera, correndo giù per l'altare per prendere le particole dal tavolino poco più in basso, litigando per sorreggere la tovaglietta della comunione, stringendo la mano del vicino per quella pace che romperanno cinque minuti dopo, cantando a squarciagola 'Alleluia' e bisbigliando le parole che non si sanno.
Crebbi, crebbi, crebbi. Smisi di fare la chierichetta, smise anche Simo. Ma di andare a Messa, quello mai.
Iniziai a svegliarmi anche da sola per raggiungere la chiesetta di San Pio X, persino svenendo una volta perché nella foga del ritardo avevo dimenticato la colazione. Non scorderò mai Don Franco che diceva al microfono: "Un bell'applauso per Silvia!", mentre una barella mi portava all'ospedale per fare accertamenti sulla mia testolina, i miei genitori in pigiama al seguito. Era un San Valentino. Bell'amore il mio.
Molte volte lessi come i 'Grandi', impappinandomi davanti a nomi come Melchisedec.
Quando mia nonna morì, Don Franco le diede l'estrema unzione e celebrò il funerale. Quando parlarono, fu una delle ultime volte che mia nonna fu veramente felice, e gliene sarò per sempre grata.
Don Franco ha allevato centinaia di cristiani, rivelandoci la vera natura di Gesù e facendoci crescere nel nome e nell'amicizia di Dio. Le sue messe erano un clima di gioia, amore e felicità. Ha dato così tanto, volendo così poco in cambio.
Ma, come potete ben immaginare, a tutto c'è un 'ma', specialmente se si parla al passato.
Ieri mattina Don Franco ha celebrato la sua ultima Messa nella nostra piccola chiesetta dopo 22 anni di intensa predicazione. Mai in vita mia ho visto così tanta gente a San Pio X, forse nemmeno per Natale. Tutti per lui, per una volta, e non solo lui per tutti.
Quante lacrime... Lo ammetto, ho peccato, non ho detto il Credo. Ahimé, non ne avevo voce. Rivedere tante facce conosciute, più grandi di qualche anno, o forse solo di qualche centimentro. Ragazzi e ragazze comparse al fianco di conoscenti un tempo bimbi, che magari ora hanno a loro volta pargoletti con la tunica sull'altare. Trucco dove c'erano brufoli. Brufoli dove c'era pelle di pesca.
Si cresce, il tempo passa, è tempo di arrivederci. Bisogna andare avanti, da soli se necessario.
Don Franco, buona fortuna. La tua comunità crescerà, ancora più grande e forte, seguendo i precetti di Dio che tu ci hai insegnato con tanto amore. Verremo a trovarti, starne certo. Dopotutto, non l'hai detta tu la frase chiave di tutto il tuo insegnamento?
I care.
Silvia

giovedì 19 settembre 2013

Gioia di vivere

Un fiocco di neve cadde sul naso di Gioia. Poi un altro, poi un altro.
Tanti fiocchi di neve cadevano dal cielo, Gioia tentava di prenderli, ma non ci riusciva. Frustrata, li vedeva sciogliersi sul marciapiede d'asfalto caldo, senza attecchire al suolo.
"Papà, quanto ci impiegheranno a fare le montagnole?"
"Poco, tesoro" rispose lui. 
S'avviarono verso il parco. Non faceva freddo, quando nevica non fa mai freddo, per questo Gioia amava tanto la neve. Erano in inverno, la sua stagione preferita, e non faceva freddo.
Sul vialetto iniziava ad esserci un tappetino candido simile al velluto. Suo padre si sedette su una panchina, lei al suo fianco. Le sistemò meglio il berretto di lana, le diede sul naso un bacino lieve quanto il fiocco precedente. Poi osservarono assieme i bimbi che giocavano.
Quanto avrebbe voluto giocare anche lei! "Papà," s'esaltava, "guarda quanto va veloce sullo scivolo quel bambino! E quella bambina, come vola alto sull'altalena! Guarda, guarda il piccolo nel passeggino! Mi somiglia!" E rideva. Era una cosa bella per lei. Tuttavia, ogni volta che osservavano gli altri bimbi il padre si rattristava.
Il suo compito, si diceva sempre Gioia, era quello di tirarlo su d'umore.
"Andiamo al laghetto, Papà, ti prego!"
Il laghetto era più tranquillo, e non faceva abbastanza freddo per ghiacciarlo. Le paperelle, infreddolite, a malapena s'intravedevano; Gioia lanciava comunque un po' di pane per i piccoli anatroccoli, prima o poi sarebbero uscite, e avrebbero avuto fame. In più, la favola del brutto anatroccolo era la sua preferita, quindi si sentiva in dovere di nutrire i piccoli dello stagno, per fare in modo che anche il più brutto di loro potesse diventare un cigno stupendo.
Chissà se lo sarebbe diventata pure lei.
Tornarono a casa quando la neve era divenuta troppo alta per lei. Salirono con l'ascensore, si infilò un pigiama caldo e si pose un plaid di Hello Kitty sulle ginocchia.

Aiutò la mamma a cucinare: quel giorno c'era nel menù la cotoletta con le patate. Le piaceva sbucciarle, la tranquillizzava.
Mangiarono raccontandosi le reciproche giornate, dunque si accomodarono davanti alla Tv a vedere un bel film. Quando finì, la mamma l'aiutò a lavarsi i piedini, le mise i calzini e l'accompagnò a letto. Gioia si sollevò facendo pressione sui braccioli della sedia con le braccia magre, la madre l'aiutò a passare sul letto, le spostò le gambe e le rimboccò le coperte. Le baciò la fronte e spense la luce.
Nel buio, la piccola Gioia iniziò a pregare Gesù per averle dato un'altra splendida giornata, e chiese che ce ne fossero delle altre, che i piccoli anatroccoli sopravvivessero al freddo e che gli altri bambini avessero sempre il sorriso sulle labbra. Infine chiese che la sua mamma e il suo papà non soffrissero per quello che non aveva, ma fossero felici per quello che aveva.
Sentiva la presenza di Starky, la sua sedia a rotelle, alla sua sinistra. La carezzò e diede la buonanotte anche a lei. 
S'addormentò.



Come una moderna favola esopica, "O lògos dèloi..." (la favola insegna) che anche se la vita sembra fare schifo, bisogna sempre apprezzarne la presenza, e accogliere ogni cosa buona che ci circonda.

Ivy

venerdì 13 settembre 2013

Ansia

Sale sale sale, poi scende.
Monta da sola, come la panna.
Inizi a sudare, a tremare, ti viene da piangere, ma non hai lacrime.
Vorresti urlare, ma non hai voce.
Ti senti in trappola. Ma dove scappare? Non ci sono vie d'uscita.
Magari è una piega sbagliata degli eventi, un imprevisto improvviso, un piede sbucato dal nulla che ti fa lo sgambetto, o forse quella che sgambetta via tra le tue gambe è la vita.
Ti nascondi dietro le parole, ti sfoghi con amici, parenti, sconosciuti. Che poi 'sfogarsi' non basta, perché si sa, la foga è del momento, poi passa.
Ma lei non passa tanto facilmente.
Escono brufoli ovunque, come i conati di vomito, alternati a fame, sonno, energia, solitudine, serenità, paura, paura anche di uscire di casa, di prendere l'autobus, di mangiare, di parlare con qualcuno, di dormire, di non svegliarsi in tempo.
Inizi una cosa e te ne penti. La molli e ti senti in colpa. 
Non ti senti te stessa. Ma chi sei in realtà? Non lo sai nemmeno tu, come fanno a saperlo gli altri?
Alterni momenti in cui vorresti ribellarti ad altri in cui preferisci sottometterti alla vita.
Momenti in cui hai bisogno di tenerezza ad altri in cui odi anche la voce delle persone a cui vuoi bene.
Talvolta vorresti chiuderti in una stanza buia, con le cuffiette nelle orecchie e gli occhi chiusi. Altre vorresti correre tra i prati urlando: "Heidi, chi è più brava adesso?"
Fa male pensare, fa male riflettere. Volare via con la fantasia una volta era immergersi in nuovi mondi, adesso è immergersi in un'utopia, illudersi di poter avere ciò che si ha, essere ciò che non si è. 
Ogni piccola cosa fa crollare il castello di carte nella tua mente. Uno sguardo può essere peggio di un tifone. Una parola spazzare via le fondamenta della casa più solida.
Ma la cosa peggiore non è il dentro. E' il fuori.
Il sorriso falso che condisce le tue giornate. Il lamentarsi delle nuvole nel cielo, anziché urlare che le peggiori sono nel petto, di fronte al cuore. Il fare un bel gesto, perché se vedi un sorriso altrui uno spontaneo ti spunterà di certo. E di conseguenza, il vivere per far felici gli altri, per comprare la tua felicità e impacchettarla col regalino per l'amichetto di turno.
Desiderare la solitudine. E appena sei sola, volere qualcuno accanto a te. E quando arriva, preferivi stare per conto tuo.
Non riesci a concentrarti, t'alzi, cammini, bevi un caffè, ti siedi, concentrazione, mezz'ora, persa, ti rialzi, ricammini, yogurt, ti risiedi, ti riconcentri, ti riperdi, fino a che a forza di camminare hai scavato un solco nel pavimento e perso dieci chili. E non hai risolto nulla.
Gioisci se qualcuno si sfoga con te. Almeno hai altri problemi a cui pensare.
Hai caldo, ti spogli, t'infreddolisci, ti copri, ma ancora caldo, freddo, caldo, freddo, fino alla pazzia.
Pazzia. Forse questa è la soluzione, è il vero scopo della tua mente, si diverte a vederti soffrire, a vederti contorta su te stessa per combattere contro la tua stessa pazzia.
O forse è depressione. Prova coi clown, forse funzionano.
Adolescenza? Naah, acqua passata.
Malinconia? Oh cielo, sono vecchia e sola... Che pena.
Allora cosa? Cosa è?
Ansia.
Per il futuro, il presente, il passato. Per le stupidate quotidiane, per le cose importanti, per le sfighe occasionali ma sempre puntuali. Per non vedere mai la luce limpida, ma sempre offuscata, coperta, nascosta. Per nostalgia, per stress, per routine, per malinconia, per pazzia, e perché no, anche per depressione. Per Ansia.
Il 90% di voi lettori a questo punto penserà che mi ci vuole uno bravo che mi curi. Il restante 10% mi avrà già scritto nei commenti il numero. Grazie di cuore, vi contatteremo al più presto per eventuali chiarimenti.
Gente, sappiatelo, specialmente voi che siete in terza media, si voi, piccolini lì in fondo, che vi sentite tanto grandi e tanto fighi e ancora fate i temi in classe su come avete trascorso le vacanze. Proprio voi.
Questo è l'effetto Liceo Classico. Vedete un po' voi.
Ivy, andata e sola come un cane (sigh)